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Cena del digiuno

Cena del digiuno

Ormai giunta alla 25° edizione, la cena del digiuno è un momento di riflessione sulle varie realtà missionarie che trova spazio nella sera del mercoledì della settimana santa.

Quest’anno il tema scelto è stato “Missione oggi” e mons. Franco Givone ha presentato la figura di don Luigi Locati, missionario vercellese in Kenya, vescovo di Isiolo dove è stato ucciso nel 2005.

Attraverso le varie testimonianze e la presentazione di alcuni video (che potrete trovare alla pagina www.vercelliweb.tv  nella sezione programmi, alla voce “passaporto”) si è potuto conoscere meglio questa figura che ha fatto la storia delle nostre missioni diocesane.

 

Ma non possiamo dimenticare che anche don Franco è stato missionario in Kenya per 25 anni con don Luigi Locati. Per questo pubblichiamo un’intervista che ha rilasciato in occasione dei suoi 20 anni a Gattinara festeggiati lo scorso 29 novembre.

– Si dice e si pensa che “una volta era meglio”, più gente a messa, più volontari, più di tutto… Ci concentriamo sempre sulle cose negative. Lei cosa vede di meglio, di positivo oggi?

Ieri sera, una catechista mi ha detto: “Ricordo quella parola del primo incontro: cerchiamo di fare sinergia”. Io non le conoscevo ancora queste parole moderne… 20-25 anni che ero via dall’Italia. Ed è su questo che ho fissato il mio obiettivo: cerchiamo di avere una comunità che può guardarsi in faccia, condividere gli obiettivi, cercare di raggiungerli insieme, specialmente aiutando a portare avanti quelli che per tanti motivi frenano e rimangono indietro e non riescono a stare al passo.

Tutti siamo chiamati a dover lasciare la propria casa e famiglia per realizzare i propri sogni. Nei luoghi dove è stato, è riuscito a trovare altre case e “famiglie” che l’hanno sostenuta nei momenti difficili e in quelli gioiosi?

Questa è una di quelle domande che mi hanno sempre posto quando tornavo a casa dall’Africa in vacanza o cose del genere. La signora di Livorno Ferraris che mi dice: “Ma voi missionari che partite per andare nel mondo e che lasciate la casa, la famiglia, il benessere, ecc. cosa vi spinge a fare questi atti di eroismo?”. Ho detto: “Signora, se le fa piacere le posso rispondere e, anche per farmi dare qualche soldino in più, che noi vogliamo sacrificare la nostra vita per salvare il mondo, ma non sarebbe questa la risposta giusta. La risposta è: se uno fa queste scelte, le fa perché è uno stile di vita, perché è così bello fare quello che sto facendo e mi rende pieno di gioia”. Anche se poi è difficile non trovare un’altra casa, altre famiglie. Ci vuole più tempo perché bisogna essere accolti in un ambiente diverso con una lingua, usi e costumi diversi.

Sì, sostenuto nei momenti felici e condiviso nei momenti felici. Ecco, più difficile trovare qualcuno che, appunto per questa diversità di cultura e di ruolo che uno gestisce, aiuta nei momenti difficili. Ma questo sostegno l’ho trovato, più che nella gente, nella comunità nella quale vivevo: preti, suore e laici. Siamo riusciti a fare una comunità, certo con tutte le difficoltà che ci sono. E questo l’ho trovato anche in Gattinara dove ho trovato una comunità con delle persone con le quali si può dialogare, si può ritrovare quella famiglia, quegli amici, l’altra casa. E su questo Gattinara mi ha aiutato un pochettino a lasciare il sogno di scappare al più presto.

– Un terzo della sua vita passata in Africa, un altro terzo a Gattinara: come queste esperienze l’hanno influenzata e cosa le hanno insegnato? E cosa l’Africa può insegnare a Gattinara e viceversa?

Il primo terzo e il secondo terzo di vita, dai 25 ai 50 anni passato in Africa, è il momento di vita più attivo di una persona, sia per la carica fisica che aiuta molto, sia per la carica spirituale, sia per la carica di sogni verso il futuro. Ecco perché è stato molto più facile affrontare la vita più dura in Africa. Dopo i 50 anni non è che uno tira i remi in barca, ma comincia a vedere cosa l’Africa può insegnare a Gattinara.

L’esperienza africana i ha insegnato che vai in un ambiente dove sei da una parte visto come quello che sa tutto, che fa tutto, che riesce a rispondere a tutto, ma dall’altra parte sei il diverso, quello che non conosce la lingua, che non conosce la gente, che non conosce il luogo… niente…ti trovi catapultato in un ambiente dove sei un pesce fuor d’acqua. E se da una parte il ruolo (il missionario, il tecnico, il bianco…ricco) dall’altra c’è questo gap, solco tra la persona che sei e il luogo, la gente che incontri che è molto grande. Ecco allora il creare un ponte tra una cultura e l’altra sapendo che se da una parte sei “superiore”, dall’altra sei fuori, straniero, non accettato, guardato col punto interrogativo. Così l’esperienza mi ha insegnato che prima di decidere e di fare, occorre guardare, ascoltare e lasciare spazio.

L’Africa comincia a vedere le cose dal positivo. Forse, non Gattinara, ma la cultura occidentale vede le cose prima dal negativo: si stava meglio un tempo, come era bello, quello era molto più bravo… E’ ora di vedere l’oggi. Il mio oggi è oggi; non è ieri e neanche domani. Mi ricollego alla prima domanda. Un pochettino di speranza, perché la fede e la carità senza la speranza non hanno radici. La fede diventa arida, la carità si chiude in se stessa e la speranza… Il mio momento è questo, il mio kairos è questo. Se 20 anni fa guardavo dalle finestre e vedevo la savana, le sue bellezze e il ghiacciaio del monte Kenya, adesso dalla finestra vedo un chiostro, un tetto. Trovare in queste cose il lato positivo. L’africano se crolla il mondo fa un passo a lato, si sposta e lo lascia cadere. Noi, invece, vediamo che il mondo cade e non ci spostiamo.

Ecco quello che l’Africa può insegnare a Gattinara: vivere oggi, affrontare i problemi oggi perché oggi è il mio kairos.

– Nel suo “mestiere” è chiamato ad essere vicino alla gente nelle varie tappe della vita (nascita, morte, matrimonio, momenti difficili…). Secondo lei, di cosa hanno bisogno le persone, oggi?

Di essere ascoltate, di essere accolte, di essere sopportate e di essere supportate.

Stamattina sono arrivate quattro persone che dovevano dire qualcosa. Magari per me la cosa era insignificante, ma per loro era importante. E ho speso le tre ore del mattino ascoltando. E mi ha fatto piacere che tutte quelle persone uscendo mi abbiano detto: “Dovevo sfogarmi. Almeno lei mi ha ascoltato. Grazie”. Non ho dato nessuna risposta, non ho risolto nessun problema, ma almeno ho ascoltato. Abbiamo bisogno di essere ascoltati. Purtroppo non abbiamo più tempo di sentire, di ascoltare i bisogni degli altri.

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